sabato 23 febbraio 2013

Vivere nella propria testa


Come ho già fatto in precedenza, mi piace mettere a confronto i contenuti di due libri differenti di due rami ben distinti del sapere, che guardino però allo stesso tema: in questo modo si può guardare a esso da due punti di vista differenti.


"«E infine sono molti quelli che hanno trovato il lavoro giusto? E poi c'è lavoro e lavoro: il lavoro che richiede mezzi di sussistenza e capitali, il lavoro al quale non si è portati; ed allora si rinunzia ed ecco che il lavoro cade dalle mani. Allora nei caratteri avidi di fare ma deboli, femminei, delicati, a poco a poco nasce ciò che si chiama mečtàtel'stvo [fantasticheria, inclinazione a perdersi nei sogni] e l'uomo finisce per diventare non un uomo, ma un certo strano essere di genere neutro». «Sono un sognatore, ho così poco di vita reale» dice il protagonista de 'Le notti bianche' e, conseguentemente, l'ambiente reale nel quale si svolge la sua vita d'ogni giorno non appare nel racconto, l'atmosfera del quale è saturata dalle proiezioni fantastiche del protagonista."

M.B. Luporini, Introduzione ai "Racconti e romanzi brevi" di Dostoevskij




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"Fondamentali processi del sistema nervoso centrale possono aver luogo anche in assenza di uno stimolo sensoriale e senza dar luogo a una risposta misurabile. Ne sono esempio il sogno e il pensiero, funzioni cerebrali complesse che possono aver luogo interamente all'interno del sistema nervoso centrale."

D.U. Silverthorn, "Approccio integrato alla fisiologia umana"



sabato 2 febbraio 2013

Lo studente Pokrovsky

"Presto smisi di studiare con Pokrovsky. Mi giudicava una bambina, come prima, una bambina vivace alla stregua di Sascia, e ciò mi addolorava molto, perché mi adoperavo con tutte le forze per riparare alla condotta precedente; ma non mi notava, e la cosa m’irritava sempre più.
Non avevo mai parlato con Pokrovsky, tranne che alle lezioni, e neanche potevo parlargli: arrossivo, mi confondevo; poi,  in qualche angolo, piangevo per la stizza.
Non so come sarebbe finito tutto questo, se una strana circostanza non avesse aiutato il nostro riavvicinamento. Una volta, di sera, mentre la mamma si trovava con Anna Fjodorovna, entrai  adagio nella camera di Pokrovsky; sapevo che non era in casa, e invero non so come mi fosse venuto in mente d’entrare da lui. Sin allora non v’avevo neppure gettato uno sguardo, benché vivessimo accanto da ormai un anno; […]
Mi venne una strana idea, e nello stesso tempo un senso di stizza mi dominava: mi sembrava che la mia amicizia, il mio cuore affezionato fossero poca cosa per lui; era istruito, lui, e io ero una stupida e non sapevo niente, non avevo letto niente, nemmeno un libro… […]
Mi venne il desiderio , e subito decisi di leggere tutti i suoi libri, a uno a uno e al più presto possibile: non so, forse pensavo che, imparando tutto quello che sapeva lui, sarei stata più degna della sua amicizia. Mi lanciai sul primo palchetto; senza pensare, senza esitare afferrai il primo polveroso volume che mi capitò nelle mani, e arrossendo, impallidendo, tremando d’agitazione e di paura, mi portai via il libro rubato, avendo deciso di leggerlo di notte, al lume della lampada, mentre la mamma dormiva. Ma come fui delusa quando, rientrata in camera mia, mi accorsi, sfogliando affrettatamente il libro, che era una vecchia opera latina, semimarcita, tutta rosicchiata dalle tarme. Tornai indietro senza perder tempo, e stavo già per mettere il libro nello scaffale, quando sentii un rumore nel corridoio e i passi di qualcuno che si avvicinava. […]
Non avevo forza sufficiente per far entrare il libro nella fila; nondimeno spinsi i volumi quanto più forte mi fu possibile. Un chiodo arrugginito, sul quale si appoggiava il palchetto, e che, pare, attendesse proprio quel momento per  rompersi, cedette. Il palchetto volò giù da un lato; i libri si sparsero con rumore sul pavimento: la porta si aprì e Pokrovsky entrò nella camera. […]
Avrei voluto fuggire, ma era tardi […] Pokrovsky s’arrabbiò terribilmente. […] Cominciò a gridare. “Be’, non vi vergognate di far tante monellerie? Vi calmerete una buona volta?” e si slanciò a raccogliere i libri. Mi chinai per aiutarlo. “Non occorre, non occorre proprio,”  riprese a gridare . “Avreste fatto meglio a non mettere il naso dove non siete pregata di andare.” Ma, nondimeno, un po’ addolcito dai miei umili movimenti, continuò più piano, in tono meno staccato […] “Via, quando comincerete a mettere un po’ di giudizio? Quando vi ravvederete? Guardatevi un po’, ormai non siete più una bambina, una bimbetta: ormai avete quindici anni” e qui, certo desiderando constatare con esattezza che, ormai,  non ero più una piccina, mi guardò e arrossì sino alle orecchie. Io non capivo, stavo davanti a lui e lo guardavo con gli occhi spalancati dallo sbalordimento. Si alzò, mi si avvicinò con aspetto turbato, si confuse terribilmente, disse qualcosa, forse si scusava di qualcosa, forse di accorgersi soltanto in quel momento che ero una giovinetta fatta; infine compresi. Non ricordo che cosa mi accadde allora, mi confusi, mi persi d’animo, arrossii ancor più di Pokrovsky, mi coprii il viso con le mani e scappai dalla stanza."

("Povera gente", Fëdor Dostoevskij, ed. Biblioteca Universale Rizzoli, pp.76-78 )